Torino – Meno commercio tradizionale, più ristorazione e turismo. La grande recessione – scoppiata a fine agosto di dieci anni fa – ha trasformato profondamente Torino (e la sua provincia), modificando la composizione delle sue attività commerciali e scambiando le vetrine dei negozi con pub, bar, ristoranti e attività turistiche. È quanto emerge da uno studio dell’Ufficio economico Confesercenti, elaborato a partire dai dati Istat e dalle rilevazioni dell’Osservatorio su Commercio e Turismo dell’associazione.
In dieci anni Torino con la provincia è passata da 37.148 attività in sede fissa o ambulante a 29.943, con una perdita di 7.205 imprese, pari al 19,4%. Nello stesso periodo, il settore “alloggio e somministrazione” è passato da 14.064 imprese a 15.664 (più 1.600, pari all’11,4%): un dato che solo in parte compensa le perdite del commercio fisso e ambulante; se si accorpano i settori (vendita e somministrazione), infatti, il saldo è negativo di 5.605 imprese.
Questi, numeri attribuiscono a Torino e provincia il non invidiabile primato delle perdite di attività in Italia (e l’unica del Nord, essendo seguita da Bari, Messina, Catania e Salerno). Inoltre, la diminuzione del 19,4% di negozi e bancarelle è quasi il doppio rispetto alla media nazionale (-11,2%), mentre il pur apprezzabile aumento dei pubblici esercizi (11,4%) è sotto la media nazionale (16,6%) di oltre cinque punti. Fra i settori più penalizzati, al primo posto c’è l’abbigliamento seguito dalle edicole; aumentano tabaccherie e negozi di informatica.
“Sono dati – commenta Giancarlo Banchieri, presidente di Confesercenti – estremamente preoccupanti: in questi anni non abbiamo mancato di segnalare gli andamenti del settore periodo per periodo e già in quelle occasioni la tendenza negativa era chiara, ma certamente fa impressione vedere ora l’intera serie storica e constatare che Torino e la sua provincia perdono più di altre aree. Ovviamente, è positiva la crescita delle attività di alloggio e somministrazione perché conferma il rafforzamento turistico della nostra città, che va ulteriormente ampliato e consolidato. Ma, purtroppo, il bilancio complessivo del settore commercio ha il segno meno. E soprattutto rischia di rappresentare sempre di più un problema non solo per i tanti imprenditori che hanno dovuto chiudere, ma anche per la città in termini di vivibilità, gradevolezza e sicurezza di vie e quartieri; inoltre, una città con un tessuto commerciale sempre più povero è meno attrattiva anche dal punto di vista turistico. D’altra parte, in questi anni abbiamo registrato un trasferimento di quote di mercato dai piccoli alla grande distribuzione, favorita dalle politiche di liberalizzazione, che sono insostenibili per le imprese familiari e che devono essere ripensate. A questo si aggiunga la crisi economica, che ha ridotto i consumi delle famiglie: fra il 2007 e il 2016 si è passati da una spesa media di 33.048 a una di 31.219 euro (-1757, pari al 5,3%), con cali particolarmente significativi nei settori dell’extralimentare (abbigliamento in primo luogo) e con una diminuzione più contenuta nell’alimentare. In una situazione come questa era difficile aspettarsi risultati diversi. Di sicuro, però, la politica – a tutti i livelli – non ha avuto verso i problemi del piccolo commercio l’attenzione dovuta: basti pensare all’espansione incontrollata della grande distribuzione. Almeno da questo punto di vista, è necessario un deciso cambio di rotta”.