“Se ci fosse la speculazione, i negozi alimentari vedrebbero aumentare i profitti. Invece le vendite continuano a calare e gli esercizi a chiudere, con perdite ingenti di posti di lavoro e di servizi per le comunità locali”: così Daniele Erasmi, presidente di Fiesa, l’associazione che riunisce le imprese specializzate nel commercio alimentari di Confesercenti, in occasione della Giunta nazionale.
“Dal 2019 ad oggi sono sparite oltre 2.300 imprese attive nella panificazione e nella distribuzione e vendita di carne. Da qui al 2030, con le tendenze attuali, stimiamo di perderne altre 4mila. È il segno evidente della sofferenza del comparto: le imprese della distribuzione hanno tentato di assorbire gli aumenti registrati alla produzione, riducendo i propri margini per non trasferire gli aumenti per intero sui consumatori. Un messaggio che fatica a prendere piede: spesso i negozi sono additati come responsabili degli aumenti”.
“L’inflazione – continua Erasmi – morde e preoccupa tutti: non solo il governo, che ha riunito la Commissione di allerta rapida di cui alla legge 23/23 sul prezzo della pasta; ma anche le imprese, che a causa degli aumenti dei prezzi vedono crollare il volume delle vendite e temono pesanti ricadute in termini di tenuta del comparto. Il contrasto all’inflazione si fa con azioni politiche organiche, perché i prezzi rispondono ad una serie di variabili che bisogna tenere in considerazione: dai costi produttivi a quelli energetici, da quelli della logistica a quelli del confezionamento. Il prezzo sullo scaffale è il risultato delle dinamiche di mercato sottostanti, che vanno oltre la materia prima. Come ha dimostrato la riunione della Commissione ministeriale, i prezzi delle materie prime, seppure in discesa, si collocano ancora ad un livello superiore a quello di prima della guerra in Ucraina. E, comunque, il lasso temporale necessario a recepire sui prezzi al consumo le riduzioni oppure gli aumenti delle materie prime è di 6-8 mesi. È pertanto prematuro aspettarsi da subito riduzioni di prezzo”.
“Nel comparto dei prodotti alimentari lavorati – conclude Erasmi – si è registrata una forte discrepanza nel 2022, con il prezzo alla produzione che è cresciuto del 15,6%, mentre al consumo si è fermato all’8,5% ad indicare che quasi metà degli aumenti sono stati assorbiti dalle imprese della distribuzione che rappresentano un mercato contendibile e competitivo, che impedisce la possibilità di influenzare il prezzo in maniera “autonoma” sull’intero mercato e sulle filiere. Poi ci sono le spese incomprimibili (affitti, mutui immobiliari, credito al consumo, utenze domestiche e spese per servizi di trasporto) che mettono le famiglie in difficoltà e scaricano le tensioni sui consumi. Ecco perché le azioni mirate al contenimento dell’inflazione debbono avere un orizzonte più ampio, altrimenti si perdono di vista le dinamiche di base della spinta inflattiva”.